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Pianura di S.Vittorino

Il Velino e la pianura di S. Vittorino

Siamo in una pianura lunga circa quattro chilometri e larga due, posta tra le pendici meridionali del Terminillo e quelle della catena del monte Velino, dove l'erosione carsica si mostra con una imponenza che secondo il grande geografo Riccardo Riccardi, non ha eguali in ltalia.
E’qui che il Velino cresce notevolmente ricevendo le acque delle sorgenti di Canetra ancor prima di accedere nella piana di S. Vittorino da dove, subito prima di uscirne, vi si immettono quelle del Peschiera.
Il sottosuolo di questa area è formato da una stratificazione di calcarei cretacei su cui si poggia un vasto basamento travertinoso, mentre la parte superficiale è costituita da terreni alluvionali formati da ghiaie, sabbie e argille.
Tutta la zona e interessata da numerosissime sorgenti mineralizzate, segni eloquenti di una vasta circolazione di acque sotterranee che esercitano una forte azione corrosiva del basamento travertinoso sottostante, indebolendone lo spessore e formando delle vaste cavernosità che sono alla base dei continui sprofondamenti della parte superficiale del territorio.
E’ in tal modo che sono nati i laghi di Paterno, del Pozzo di Mezzo e del Pozzo Burino, ma anche i numerosi altri piccoli bacini, ed è in questa stessa condizione strutturale che va addebitato lo stato in cui si trova la Chiesa di San Vittorino, progressivamente sprofondata su un’area sorgiva le cui acque sommergono tutta la navata creando una immagine di grande suggestione.
Lo stesso motivo è alla base dei numerosissimi fenomeni di sprofondamenti continuamente attestati, e che rendono l’area in questione decisamente insicura.
Un’area quindi fortemente determinata dalla sinergica presenza delle acque del Velino, delle sorgenti sulfuree, da quelle del Peschiera e dall’intensa attività carsica sotterranea.
L’intera area della piana di S. Vittorino era soggetta a continue inondazioni del Velino, e più volte si tentò di porvi rimedio a cominciare dalla seconda metà del XVIII secolo quando il comune di Cittaducale si rivolse direttamente al re di Napoli denunciando una situazione ormai insostenibile dal punto di vista economico e sanitario visto che le aree paludose che si andavano a formare erano fonti di febbri malariche.
Le cause individuate erano molte, ma l’attenzione si focalizzò sui due mulini che la famiglia Potenziani possedeva a Rieti subito a monte del ponte Romano.
Mulini antichissimi, attestati nelle fonti farfensi fin dall’VIII secolo, e che, secondo i tecnici del tempo, creavano una barriera al deflusso delle acque del Velino i cui effetti arrivavano fino alla piana di S. Vittorino.
In realtà non era così come venne appurato qualche anno dopo dall’ing. Carletti appositamente inviato dalla corte di Napoli per risolvere il problema le cui cause vennero individuate nell' assenza delle arginature del Velino e nelle sue tortuosità, ed in genere al disordine agrario complessivo che caratterizzava questa area.
Ovviamente si fece ben poco per attivare una saggia e oculata gestione del territorio come sosteneva l'ingegnere napoletano, e i problemi restarono pressoché irrisolti fino al 1839 quando si mise in campo un progetto destinato a mutare profondamente il paesaggio naturale della piana di S. Vittorino.
Se il percorso del Velino, tortuoso e accidentato provocava alluvioni e miasmi, allora va cambiato, si dissero i tecnici della Direzione delle bonifiche di Napoli, e tanto fecero allontanando il fiume dal suo storico percorso pedemontano per traslarlo al centro della pianura scavando un canale artificiale lungo 4,4 Km., profondo 5,30 m. e largo 18,50 che, rispetto alla situazione pregressa, garantiva per altro argini superiori ai due metri.
Contestualmente si avviò la realizzazione di un vasto progetto idraulico che prevedeva tra l' altro la costruzione di alcuni cosiddetti lagnoli come quello di Micciani, attraverso cui si immisero nel Velino le acque delle sorgenti del Peschiera, quello di Facciani, lungo oltre due chilometri che raccoglieva le acque del lagnolo Madonna di S. Vittorino il quale a sua volta trasportava quelle di diverse sorgenti naturali.
In realtà i lavori non giunsero mai a conclusione soprattutto perchè ci si accorse che le pendenze calcolate non erano adeguate, ne tenevano Conto del principale problema del Velino che era dato dal suo forte potere incrostante che faceva crescere velocemente il fondo del suo letto.
La situazione peggiorò non poco nel periodo postunitario quando, in seguito all'intensa opera di disboscamento che si concretizzò in quegli anni, i torrenti montani immisero nel Velino una sempre crescente quantità di ghiaie provocandone sempre pili frequenti straripamenti.
Nel 1876, in base ad un progetto dell'ingegnere reatino Eugenio Duprè, si pensò addirittura di realizzare un ulteriore letta al Velino con pendenze superiori a quello che era stato realizzato tra il 1839 e il 1841 dall'ing. Transu, ma i lavori non presero mai avvio sia per difficoltà di approvazione da parte del Ministero dei lavori pubblici, ma soprattutto perchè, quando si arrivò alla conclusione dell' iter progetttuale, era gia in corso di realizzazione la ferrovia Terni-Rieti-L’Aquila che annullava ogni possibilità di realizzazione dell' opera, o imponeva una nuova progettazione di essa.
Più tardi il problema venne almeno parzialmente risolto tramite la realizzazione di diverse opere idrauliche di sistemazione dell' alveo e di drenaggio delle acque.
Oggi la piana di S. Vittorino è una zona umida di grande interesse, profondamente segnata dal Velino e dalle sue acque sotterranee che hanno generato valori ambientali straordinari.